La Nascita di Gesù
VOLUME I CAPITOLO 29
XXIX. La nascita di Gesù. Efficacia salvifica della divina maternità di Maria.
6 giugno 1944.
29.1Vedo
ancora l’interno di questo povero rifugio petroso dove hanno trovato
asilo, accumunati nella sorte a degli animali, Maria e Giuseppe.
Il fuocherello sonnecchia insieme al suo guardiano. Maria solleva
piano il capo dal suo giaciglio e guarda. Vede che Giuseppe ha il capo
reclinato sul petto come se pensasse, e pensa che la stanchezza soverchi
il suo buon volere di rimanere desto. Sorride d’un buon sorriso e,
facendo meno rumore di quanto ne può fare una farfalla che si posi su
una rosa, si mette seduta e da seduta in ginocchio. Prega con un sorriso
beato sul volto. Prega a braccia aperte, non proprio a croce, ma quasi,
a palme volte in alto e in avanti, né mai pare stanca di quella posa
penosa. Poi si prostra col volto contro il fieno in una ancora più
intensa preghiera. Lunga preghiera.
Giuseppe si scuote. Vede
quasi morto il fuoco e quasi tenebrosa la stalla. Getta una manata di
eriche fini fini e la fiamma risfavilla; vi unisce rametti più grossi, e
poi ancora più grossi, perché il freddo deve esser pungente. Il freddo
della notte invernale e serena che penetra da tutte le parti di quella
rovina. Il povero Giuseppe, presso come è alla porta — chiamiamo pure
così il pertugio a cui fa da tenda il suo mantello — deve essere gelato.
Accosta le mani alla fiamma, si sfila i sandali e accosta i piedi. Si
scalda. Quando il fuoco è ben desto e la sua luce è sicura, egli si
volge. Non vede nulla, neppure più quel biancore del velo di Maria, che
prima metteva una linea chiara sul fieno scuro. Si leva in piedi e
lentamente si avvicina al giaciglio.
«Non dormi, Maria?», chiede.
Lo chiede tre volte, finché Ella si riscuote e risponde: «Prego».
«Non abbisogni di nulla?».
«No, Giuseppe».
«Cerca di dormire un poco. Di riposare almeno».
«Cercherò. Ma pregare non mi stanca».
«Addio, Maria».
«Addio, Giuseppe».
Maria riprende la sua posa. Giuseppe, per non cedere più al sonno,
si pone in ginocchio presso il fuoco e prega. Prega con le mani strette
sul viso. Le leva ogni tanto per alimentare il fuoco e poi torna alla
sua fervente preghiera. Meno il rumore delle legna che crepitano e
quello del ciuchino, che di tanto in tanto batte uno zoccolo sul suolo,
non si ode niente.
29.2Un
poco di luna si insinua da una crepa del soffitto e pare una lama di
incorporeo argento che vada cercando Maria. Si allunga, man mano che la
luna si fa più alta in cielo, e la raggiunge, finalmente. Eccola sul
capo della orante. Glielo innimba di candore.
Maria leva il capo
come per una chiamata celeste e si drizza in ginocchio di nuovo. Oh!
come è bello qui! Ella alza il capo, che pare splendere nella luce
bianca della luna, e un sorriso non umano la trasfigura. Che vede? Che
ode? Che prova? Solo Lei potrebbe dire quanto vide, sentì e provò
nell’ora fulgida della sua Maternità. Io vedo solo che intorno a Lei la
luce cresce, cresce, cresce. Pare scenda dal Cielo, pare emani dalle
povere cose che le stanno intorno, pare soprattutto che emani da Lei.
La sua veste, azzurra cupa, pare ora di un mite celeste di miosotis,
e le mani e il viso sembrano farsene azzurrini come quelli di uno messo
sotto il fuoco di un immenso zaffiro pallido. Questo colore, che mi
ricorda, benché più tenue, quello che vedo nelle visioni del santo
Paradiso e anche quello che vidi nella visione della venuta dei Magi, si
diffonde sempre più sulle cose, le veste, le purifica, le fa splendide.
La luce si sprigiona sempre più dal corpo di Maria, assorbe quella
della luna, pare che Ella attiri in sé quella che le può venire dal
Cielo. Ormai è Lei la Depositaria della Luce. Quella che deve dare
questa Luce al mondo. E questa beatifica, incontenibile, immisurabile,
eterna, divina Luce che sta per esser data, si annuncia con un’alba, una
diana, un coro di atomi di luce che crescono, crescono come una marea,
che salgono, salgono come un incenso, che scendono come una fiumana, che
si stendono come un velo…
La volta, piena di crepe, di
ragnateli, di macerie sporgenti che stanno in bilico per un miracolo di
statica, nera, fumosa, repellente, pare la volta di una sala regale.
Ogni pietrone è un blocco di argento, ogni crepa un guizzo di opale,
ogni ragnatela un preziosissimo baldacchino contesto di argento e
diamanti. Un grosso ramarro, in letargo fra due macigni, pare un monile
di smeraldo dimenticato là da una regina; e un grappolo di pipistrelli
in letargo, una preziosa lumiera d’onice. Il fieno che pende dalla più
alta mangiatoia non è più erba, sono fili e fili di argento puro che
tremolano nell’aria con la grazia di una chioma disciolta.
La
sottoposta mangiatoia è, nel suo legno scuro, un blocco d’argento
brunito. Le pareti sono coperte di un broccato in cui il candore della
seta scompare sotto il ricamo perlaceo del rilievo, e il suolo… che è
ora il suolo? È un cristallo acceso da una luce bianca. Le sporgenze
paiono rose di luce gettate per omaggio al suolo; e le buche, coppe
preziose da cui debbano salire aromi e profumi.
29.3E
la luce cresce sempre più. È insostenibile all’occhio. In essa
scompare, come assorbita da un velario d’incandescenza, la Vergine… e ne
emerge la Madre.
Sì. Quando la luce torna ad essere sostenibile
al mio vedere, io vedo Maria col Figlio neonato sulle braccia. Un
piccolo Bambino, roseo e grassottello, che annaspa e zampetta con le
manine grosse quanto un boccio di rosa e coi piedini che starebbero
nell’incavo di un cuore di rosa; che vagisce con una vocina tremula,
proprio di agnellino appena nato, aprendo la boccuccia che sembra una
fragolina di bosco e mostrando la linguetta tremolante contro il roseo
palato; che muove la testolina tanto bionda da parere quasi nuda di
capelli, una tonda testolina che la Mamma sostiene nella curva di una
sua mano, mentre guarda il suo Bambino e lo adora piangendo e ridendo
insieme e si curva a baciarlo, non sulla testa innocente, ma su, centro
del petto, là dove sotto è il cuoricino che batte, batte per noi… là
dove un giorno sarà la Ferita. Gliela medica in anticipo, quella ferita,
la sua Mamma, col suo bacio immacolato.
Il bue, svegliato dal
chiarore, si alza con gran rumore di zoccoli e muggisce, e l’asinello
volge il capo e raglia. È la luce che li scuote, ma io amo pensare che
essi hanno voluto salutare il loro Creatore, per loro e per tutti gli
animali.
29.4Anche
Giuseppe, che, quasi rapito, pregava così intensamente da esser isolato
da quanto lo circondava, si scuote, e dalle dita strette al viso vede
filtrare la luce strana. Leva le mani dal viso, alza il capo, si volge.
Il bue ritto in piedi nasconde Maria. Ma Ella chiama: «Giuseppe, vieni».
Giuseppe accorre. E quando vede si arresta, fulminato di riverenza, e
sta per cadere in ginocchio là dove è. Ma Maria insiste: «Vieni,
Giuseppe» e punta la mano sinistra sul fieno e, tenendo con la destra
stretto al cuore l’Infante, si alza e si dirige a Giuseppe, che cammina
impacciato per il contrasto fra il desiderio di andare e il timore di
essere irriverente.
Ai piedi della lettiera i due sposi si incontrano e si guardano con un pianto beato.
«Vieni, ché offriamo al Padre Gesù», dice Maria. E, mentre Giuseppe
si inginocchia, Ella, ritta in piedi fra due tronchi che sostengono la
volta, alza la sua Creatura fra le braccia e dice: «Eccomi. Per Lui, o
Dio, ti dico questa parola. Eccomi a fare la tua volontà. E con Lui io,
Maria, e Giuseppe, mio sposo. Ecco i tuoi servi, Signore. Sia fatta
sempre da noi, in ogni ora e in ogni evento, la tua volontà, per tua
gloria e per amor tuo».
Poi Maria si curva e dice: «Prendi, Giuseppe» e offre l’Infante.
«Io? A me? Oh, no! Non sono degno!». Giuseppe è sbigottito addirittura, annientato all’idea di dover toccare Iddio.
Ma Maria insiste sorridendo: «Tu ne sei ben degno. Nessuno più di te
lo è, e per questo l’Altissimo ti ha scelto. Prendi, Giuseppe, e
tienilo mentre io cerco i panni».
Giuseppe, rosso come una
porpora, stende le braccia e prende il batuffolino di carne che strilla
di freddo e, quando lo ha fra le braccia, non persiste nell’intenzione
di tenerlo scosto da sé per rispetto e se lo stringe al cuore, dicendo
con un grande scoppio di pianto: «Oh! Signore! Dio mio!», e si curva a
baciare i piedini e li sente freddi, e allora si siede al suolo e se lo
raccoglie in grembo e con la sua veste marrone e con le mani cerca
coprirlo, scaldarlo, difenderlo dalla sizza della notte. Vorrebbe andare
verso il fuoco, ma là c’è quella corrente d’aria che entra dalla porta.
Meglio stare qui. Meglio, anzi, andare fra i due animali, che fanno da
scudo all’aria e che mandano calore. E va fra il bue e l’asino e sta con
le spalle alla porta, curvo sul Neonato per fare del suo petto una
nicchia, le cui pareti laterali sono una testa bigia dalle lunghe
orecchie e un grosso muso bianco dal naso fumante e dall’umido occhio
buono.
29.5Maria
ha aperto il cofano e ne ha tratto lini e fasce. È andata al fuoco e le
ha scaldate. Eccola che va a Giuseppe e avvolge il Bambino nella tela
intiepidita e poi nel suo velo per riparargli la testolina. «Dove lo
mettiamo ora?», chiede.
Giuseppe guarda intorno, pensa…
«Aspetta», dice. «Spingiamo più in qua i due animali e il loro fieno e
tiriamo giù quel fieno là in alto e lo mettiamo qui dentro. Il legno
della sponda lo riparerà dall’aria, il fieno gli farà guanciale e il bue
col suo fiato lo scalderà un pochino. Meglio il bue. È più paziente e
quieto». E si dà da fare, mentre Maria ninna il suo Bambino,
stringendoselo al cuore e tenendo la sua guancia sulla testolina per
dargli calore.
Giuseppe ravviva il fuoco senza risparmio per fare
una bella fiamma e scalda il fieno e, man mano che lo asciuga, perché
non raffreddi se lo mette in seno. Poi, quando ne ha raccolto tanto da
farne un materassino all’Infante, va alla mangiatoia e lo dispone che
sia come una cunella. «È pronto», dice. «Ora ci vorrebbe una coperta,
perché il fieno punge, e per ricoprirlo…».
«Prendi il mio mantello», dice Maria.
«Avrai freddo».
«Oh! non fa nulla! La coperta è troppo ruvida. Il mantello è morbido
e caldo. Io non ho freddo per nulla. Ma che Egli non soffra più!».
Giuseppe prende l’ampio mantello di morbida lana celeste cupo e lo
accomoda in doppio sul fieno, con un lembo che pende fuor dalla greppia.
Il primo letto del Salvatore è pronto.
E la Madre, col suo dolce
passo ondeggiante, ve lo porta e ve lo depone, e lo ricopre con il
lembo del manto e lo conduce anche intorno al capino nudo, che affonda
nel fieno, appena riparato da questo dal sottile velo di Maria. Rimane
scoperto solo il visetto grosso come un pugno d’uomo, e i Due, curvi
sulla greppia, lo guardano beati dormire il suo primo sonno, perché il
calduccio delle fasce e del fieno ha calmato il pianto e conciliato il
sonno al dolce Gesù.
29.6Dice Maria:
«Ti avevo promesso che Egli sarebbe venuto a portarti la sua pace.
La ricordi la pace che era in te nei giorni di Natale? Quando mi vedevi
col mio Bambino? Allora era il tuo tempo di pace. Ora è il tuo tempo di
pena. Ma tu lo sai, ormai. È nella pena che si conquista la pace e ogni
grazia per noi e per il prossimo. Gesù-Uomo tornò Gesù-Dio dopo la
tremenda pena della Passione. Tornò Pace. Pace nel Cielo da cui era
venuto e dal quale ora effonde la sua pace a coloro che nel mondo lo
amano. Ma nelle ore di Passione, Lui, Pace del mondo, fu privato di
questa pace. Non avrebbe sofferto se l’avesse avuta. E doveva soffrire.
Completamente soffrire.
29.7Io, Maria, ho redento la donna con la mia Maternità divina. Ma non fu che l’inizio della redenzione della donna, questo. Negandomi ad ogni umano sponsale col voto di verginità, avevo respinto ogni soddisfazione concupiscente meritando grazia da Dio. Ma non bastava ancora. Perché il peccato d’Eva era albero di quattro rami: superbia, avarizia, golosità, lussuria. E tutti e quattro andavano stroncati prima di sterilire l’albero dalle radici.
29.8Umiliandomi sino al profondo, ho vinto la superbia.
Mi sono umiliata davanti a tutti. Non parlo della mia umiltà verso
Dio. Questa è dovuta all’Altissimo da ogni creatura. L’ebbe il suo
Verbo. La dovevo avere io, donna. Ma hai mai riflettuto quali
umiliazioni dovetti subire, e senza difendermi in nessuna maniera, da
parte degli uomini? Anche Giuseppe, che era giusto, mi aveva accusata
nel suo cuore. Gli altri, che giusti non erano, avevano peccato di
mormorazione verso il mio stato, e il rumore delle loro parole era
venuto come onda amara a frangersi contro la mia umanità.
E furon
le prime delle infinite umiliazioni che la mia vita di Madre di Gesù e
del genere umano mi procurarono. Umiliazioni di povertà, umiliazioni di
profuga, umiliazioni per rimproveri di parenti e amici che, non sapendo
la verità, giudicavano debole il mio modo d’esser madre verso il mio
Gesù fatto giovane uomo, umiliazioni nei tre anni del suo ministero,
umiliazioni crudeli nell’ora del Calvario, umiliazioni fin nel dover
riconoscere che non avevo di che comperare luogo e aromi per la
sepoltura del Figlio mio.
29.9Ho vinto l’avarizia dei Progenitori rinunciando in anticipo di tempo alla mia Creatura.
Una madre non rinuncia mai che forzatamente alla sua creatura. La
chiedano al suo cuore la patria, l’amore di una sposa, o Dio stesso,
ella recalcitra alla separazione. È naturale. Il figlio ci cresce in
seno e non è mai reciso completamente il legame che tiene la sua persona
congiunta alla nostra. Se anche è spezzato il canale del vitale
ombelico, resta sempre un nervo che parte dal cuore della madre, un
nervo spirituale e più vivo e sensibile di un nervo fisico, il quale si
innesta nel cuore del figlio. E si sente stirare sino allo spasimo se
l’amore di Dio o di una creatura, o le esigenze della patria,
allontanano il figlio dalla madre. E si spezza lacerando il cuore se la
morte strappa un figlio ad una madre.
Ed io ho rinunciato, dal
momento che l’ho avuto, al Figlio mio. A Dio l’ho dato. A voi l’ho dato.
Io, del Frutto del mio seno, me ne sono spogliata per riparare al furto
di Eva del frutto di Dio.
29.10Ho vinto la golosità, e del sapere e del godere, accettando di sapere unicamente ciò che Dio voleva sapessi, senza chiedere a me o a Lui più di quanto mi fosse detto. Ho creduto senza investigare. Ho vinto la golosità del godere, perché mi sono negata ogni sapore di senso. La mia carne l’ho messa sotto ai piedi. La carne, strumento di Satana, l’ho confinata con Satana sotto al mio calcagno per farmene scalino per avvicinarmi al Cielo. Il Cielo! La mia mèta. Là dove era Dio. L’unica mia fame. Fame che non è gola ma necessità benedetta da Dio, il quale vuole che appetiamo di Lui.
29.11Ho vinto la lussuria,
la quale è la golosità portata all’ingordigia. Perché ogni vizio non
frenato conduce ad un vizio più grande. E la golosità di Eva, già
riprovevole, la condusse alla lussuria. Non le bastò più il darsi
soddisfazione da sola. Volle spingere il suo delitto ad una raffinata
intensità, e conobbe e si fece maestra di lussuria al compagno. Io ho
capovolto i termini e, in luogo di scendere, sono sempre salita. In
luogo di far scendere, ho sempre attirato in alto, e del mio compagno,
un onesto, ho fatto un angelo.
Ora che possedevo Iddio e con Lui
le sue ricchezze infinite, mi sono affrettata a spogliarmene dicendo:
“Ecco, sia fatta per Lui e da Lui la tua volontà”. Casto è colui che ha
ritenutezza non solo di carne, ma anche di affetti e di pensieri. Io
dovevo esser la Casta per annullare l’Impudica della carne, del cuore e
della mente. E non uscii dal mio ritegno dicendo neppure del mio Figlio,
unicamente mio sulla Terra come era unicamente di Dio in Cielo: “Questo
è mio e lo voglio”.
29.12Eppure
non bastava ancora per ottenere alla donna la pace perduta da Eva.
Quella ve la ottenni ai piedi della Croce. Nel veder morire Quello che
tu hai visto nascere. Nel sentirmi strappare le viscere al grido della
mia Creatura che moriva, sono rimasta vuota di ogni femminismo: non più
carne ma angelo. Maria, la Vergine sposata allo Spirito, morì in quel
momento. Rimase la Madre della Grazia, quella che vi ha dal suo tormento
generata la Grazia e ve l’ha data. La femmina che avevo riconsacrata
donna la notte del Natale, ai piedi della Croce acquistò i mezzi di
divenire creatura dei Cieli.
Questo ho fatto io per voi,
negandomi ogni soddisfazione anche santa. Di voi, ridotte da Eva femmine
non superiori alle compagne degli animali, ho fatto, sol che lo
vogliate, le sante di Dio. Sono ascesa per voi. Come feci con Giuseppe[67],
vi ho portate più in alto. La roccia del Calvario è il mio monte degli
Ulivi. Da lì presi il balzo per portare ai Cieli l’anima risantificata
della donna insieme alla mia carne, glorificata per aver portato il
Verbo di Dio e annullato in me anche l’ultima traccia di Eva, l’ultima
radice di quell’albero dai quattro venefici rami e dalla radice confitta
nel senso, che aveva trascinato alla caduta l’umanità e che fino alla
fine dei secoli e all’ultima donna vi morderà le viscere. Da là, dove
ora splendo nel raggio dell’Amore, io vi chiamo e vi indico la Medicina
per vincere voi stesse: la Grazia del mio Signore e il Sangue del Figlio
mio.
29.13E
tu, mia voce, riposa l’anima tua nella luce di quest’alba di Gesù, per
aver forza per le future crocifissioni che non ti saranno risparmiate,
perché qui ti vogliamo e qui si viene attraverso il dolore, perché qui
ti vogliamo e tanto più alto si viene quanto più si è portato pena per
ottenere Grazia al mondo.
Va’ in pace. Io sono con te».
Commenti
Posta un commento